Powered By Blogger

martedì 22 luglio 2014

Le direttive anticipate di trattamento

 Introduzione: biomedicina e diritti dell’uomo.

«Direttive anticipate»; «testamento biologico»; «scelte di fine vita»: sono queste le etichette con le quali si identifica un dibattito che, negli ultimi anni, è uscito dalle pagine delle riviste scientifiche per diventare oggetto di discussione sui quotidiani, nelle televisioni e nelle aule parlamentari.
Un dibattito il cui senso può essere compreso solo ricordando quanto accaduto negli ultimi decenni in due settori fra loro profondamente legati: quello delle scienze biomediche e quello dei diritti della persona.

 

 Le scelte di fine vita: la giurisprudenza

Quando i genitori di Karen Quinlan – una ragazza colpita da un collasso e sottoposta a rianimazione, ma rimasta in stato vegetativo – agiscono per ottenere la cessazione delle terapie alla quali è sottoposta la figlia, i giudici del New Jersey riconoscono che il diritto a rifiutare le cure non si perde se si è colpiti da incapacità; si tratta di individuare la via migliore per dar valore alla volontà della persona, pur quando questa non sia più in grado di manifestarla. Nel caso di specie essi affermeranno perciò che: «The only practical way to prevent destruction of the right is to permit the guardian and family of Karen to render their best judgment, subject to the qualifications hereinafter stated, as to whether she would exercise it in these circumstances».
La linea verrà confermata in un’altra vicenda, relativa a un’anziana donna in condizioni gravissime e del tutto incapace che sopravviveva grazie all’alimentazione somministratale con sondino nasogastrico. Di fronte alla richiesta di un congiunto della paziente, volta a far cessare le terapie in atto, i giudici – pur auspicando un intervento del legislatore in grado di dettare regole certe in una materia così delicata – individueranno nelle precedenti manifestazioni di volontà (living will) e nella nomina di un rappresentante – che si faccia portavoce della volontà e che persegua il best interest del paziente – gli strumenti idonei ad assicurare l’esercizio del diritto da parte dell’incapace.
Un altro caso, costantemente citato nella letteratura d’oltre oceano, riguarda una donna caduta in SVP a causa di un incidente stradale. Stavolta la richiesta di sospendere le misure – nutrizione e idratazione artificiale – che tenevano in vita la giovane proviene dai suoi genitori. Il caso consentirà alla Corte Suprema federale di chiarire, da un lato, che la nutrizione e l’idratazione artificiali sono trattamenti sanitari e, in quanto tali, soggetti alle regole del consenso informato; dall’altro lato, che le scelte devono essere adottate rispettando la volontà del paziente (ora incapace), determinata in base a «clear and convincing, inherently reliable evidence».

 

Un rapido sguardo alla realtà europea.

Come abbiamo visto, la sequenza che ha caratterizzato la nascita negli U.S.A. delle regole che ci interessano ha visto, in prima battuta, la giurisprudenza affrontare i nuovi problemi giuridici ed etici – conseguenza delle innovazioni nel campo medico scientifico – allestendo risposte coerenti con il quadro costituzionale e con le stesse regole tramandate dal common law giurisprudenziale.
È intervenuta poi la legislazione, la quale non ha smentito quanto affermato dalle corti, ma ha proseguito sul medesimo percorso, con l’intenzione di offrire ai consociati strumenti formali e certezze in vista del rispetto dei diritti già proclamati nelle aule giudiziarie.
La medesima sequenza – corti e legislatori che si muovono in sintonia, i secondi formalizzando e riordinando le regole formulate dai primi – emerge dall’analisi di quanto accaduto in molti altri Paesi ai noi vicini.
In effetti, anche in Inghilterra, le regole che governano le scelte di fine vita sono state dapprima formulate dai giudici e poi formalizzate dal Parlamento.
Dal caso Bland – ove si è affermato che nella decisione medica si deve perseguire il best interest del paziente, il che può comportare anche l’interruzione della cure, comprese le misure di nutrizione e idratazione artificiale – si è giunti al Mental Capacity Act del 2005.
La normativa – assai complessa – muove dal principio di autonomia del paziente e mira all’obiettivo della realizzazione del suo best interest.
In estrema sintesi:
a) la decisione spetta all’interessato;
b) se questi è incapace di manifestare la sua volontà:
b1) si rispettano le sue direttive anticipate; sono possibili «Advance decisions to refuse life-sustaining treatment» (solo in tal caso sono previste particolari formalità; sono comunque rinunziabili l’alimentazione e l’idratazione artificiale); è possibile che l’interessato nomini un «donee of lasting power of attorney», al quale spetteranno le decisioni; ove necessario per la tutela degli interessi del soggetto, si può procedere alla nomina di un «deputy» da parte della Corte;
b2) altrimenti decide il medico, sulla base del best interest, da determinarsi tenendo conto di tutte le informazioni disponibili sul soggetto, interpellandoattorney, deputy (se esistenti) oppure un Independent Mental Capacity Advocate e sotto il controllo della Court of Protection.

Olanda e Belgio presentano molti tratti in comune. In entrambi i Paesi, dopo una serie di casi nei quali i giudici avevano sostanzialmente riconosciuto, a determinate condizioni, la liceità dell’eutanasia, è intervenuta la legislazione. In queste realtà è stata esplicitamente disciplinata l’eutanasia, intesa come: «l’acte pratiqué par un tiers, qui met intentionnellement fin à la vie d’une personne, à la demande de celle-ci». Così definita, l’eutanasia – che può essere oggetto di dichiarazione anticipata scritta da parte di chi la richieda – è depenalizzata se praticata dal medico in determinate circostanze e con determinate garanzie
In Francia è la c.d. «Loi Léonetti» a dettare ora le regole: il consenso informato è necessario per «tout traitment» (alimentazione e idratazione sono trattamenti medici, e perciò rinunziabili). In vista di una futura incapacità, la volontà può essere riportata nelle «directives anticipées»: scritte, ma con poche formalità; vincolanti e valide 3 anni. Ove le direttive riguardino la rinunzia a trattamenti vitali, la decisione finale toccherà al medico, il quale dovrà «tenerne conto» e seguire una procedura collegiale consultando la personne de confiance, oppure la famiglia o, un proche.
In Spagna, una legge del 2002 stabilisce le necessità del consenso informato, salvo che in caso di emergenza; la volontà del paziente può essere contenuta nelle
«instrucciones previas» da redigere in forma scritta e per le quali è previsto l’allestimento di un registro nazionale; l’interessato può rinunciare a qualsiasi terapia los cuidados y el tratamiento de su salud»).
L’Austria ha preso posizione con una legge del 2006 Patientenverfügungsgesetz: le «disposizioni del paziente» – redatte davanti a notaio, avvocato o «rappresentante dei pazienti» – sono vincolanti se presentano tutti i requisiti di legge; altrimenti non sono vincolanti ma restano rilevanti al fine di stabilire la volontà del soggetto; la rinunzia alle terapie è ammissibile anche quando va contro il parere medico – prevale cioè l’ autonomia – e tale rinuncia può riguardare anche alimentazione e idratazione artificiali.
In Germania, dopo una decisione del Bundesgerichthof – nella quale si è affermato che l’art. 1 della Grundgesetz sulla dignità umana impone il rispetto della volontà del paziente, e che l’autodeterminazione rileva anche per chi sia in stato di incapacità, specie ove abbia formulato una Patientenverfügung – il legislatore è intervenuto con una legge che ha modificato il codice civile (BGB): la Patientenverfügungsgesetz, in base alla quale le disposizioni – scritte – del paziente vanno rispettate; in ogni caso si deve ricostruire la sua volontà presunta, processo al quale partecipano medico, tutore, familiari, persone di fiducia, giudice tutelare; ciò vale per tutte le terapie.

 L’Italia: il caso «Englaro»

Nel nostro Paese, la scintilla che ha acceso le discussioni intorno alla rinunzia alle terapie, in caso di incapacità dell’interessato, è scoccata con il caso «Englaro» o, meglio, quando la vicenda giudiziaria ha cominciato a prendere una piega favorevole al ricorrente: fino a quel momento, infatti, l’attenzione dei media nei confronti della dramma della giovane Eluana e della sua famiglia era stata decisamente scarsa.
Eluana Englaro era una giovane donna, rimasta vittima di un incidente stradale; all’inizio della storia giudiziaria che l’ha riguardata, si trovava in SVP già da 7 anni.
Il padre della ragazza, nominato suo tutore, aveva chiesto la rimozione delle misure di mantenimento in vita, sostenendo che tale sarebbe stata la volontà della figlia, ove fosse stata in grado di esprimerla.
Dopo essere state respinte nelle prime fasi processuali, le tesi del ricorrente verranno infine accolte dalla Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano.
Secondo la Suprema Corte, il principio del consenso informato «esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente»; il paziente ha perciò il diritto di «rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».
La salute è – prosegue la Corte – un bene disponibile da parte del soggetto capace, oppure da chi abbia «specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza».

Gli istituti della tutela e dell’amministrazione di sostegno attribuiscono al rappresentante la cura dell’incapace: e ciò vale soprattutto con riguardo agli interessi non patrimoniali del soggetto.

Amministratore di sostegno

Si tratta di un istituto giuridico entrato per la prima volta nell’ordinamento italiano con la legge n. 6 del 9 gennaio 2004. Lo scopo è quello di affiancare il soggetto la cui capacità di agire risulti limitata o del tutto compromessa. Citando proprio l’art 1 della Legge 6/2004 si può dire che si tratta di un nuovo istituto di protezione avente la funzione ditutelare … le persone prive in tutto o in parte di autonomia, con la minore limitazione possibile della capacità di agire.
Chi può fare la richiesta (ricorso)
Il ricorso può essere presentato direttamente al Giudice Tutelare, in alcuni casi anche senza avvocato, da:
1. beneficiario (persona interessata), anche se incapace;
2. familiari entro il 4° grado: genitori, figli, fratelli o sorelle,nonni, zii, prozii, nipoti, cugini;
3. gli affini entro il 2° grado: cognati, suoceri, generi, nuore;
4. il Pubblico Ministero;
5. il Tutore o Curatore.
Chi deve fare la richiesta (ricorso)
I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e nell’assistenza della persona, venuti a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di ammininistrazione di sostegno, sono obbligati ad proporre il ricorso al Giudice Tutelare.
Quando fare la richiesta (ricorso)
Per chiedere la nomina di un amministratore non è sufficiente che la persona sia incapace: occorre che vi sia pure un interesse attuale e concreto al compimento di atti per i quali è necessario l’amministratore di Sostegno e che l’interessato non potrebbe compiere da solo.
A chi fare opposizione al ricorso
Alla Corte d’Appello a norma dell’art. 739 cpc; contro il decreto della Corte d’Appello alla Cassazione.
A chi rivolgersi
Per informazioni direttamente al Tribunale di competenza o allo Sportello ADS presente presso i vari Tribunali, attraverso la posta elettronica.
A chi indirizzare la richiesta (ricorso)
Il ricorso deve essere presentato al Giudice Tutelare  del luogo ove vive abitualmente la persona interessata (se ricoverata permanentemente presso una residenza per anziani o altra struttura è competente il Giudice del luogo di ricovero).
Il ricovero temporaneo (es. per riabilitazione) invece non influisce sul luogo ove presentare la domanda, che resterà determinato in base alla residenza).
Durata dell’incarico
La durata dell’incarico di Amministratore di Sostegno può essere a carattere:
1. temporaneo,
2. indeterminato.
Il decreto emesso del Giudice decide la durata dell’incarico e i poteri attribuiti all’Amministratore di Sostegno. Detto decreto viene annotato nei registri di stato civile del comune di residenza e di nascita del beneficiato a margine del suo atto di nascita. Il decreto che dispone l’Amministrazione di Sostegno e delimita i poteri dell’ADS può sempre essere modificato per esigenze che si manifestino nel corso della vita del soggetto interessato.
L’amministratore di sostegno, dopo la nomina, presta il giuramento di svolgere il proprio incarico con fedeltà e diligenza e da quel momento può iniziare a svolgere la sua funzione. L’amministrazione di sostegno può sempre essere revocata qualora ne vengano meno i presupposti che la hanno necessitata o se essa si riveli non idonea a realizzare la tutela del beneficiario.
Potrei dell’amministratore e limiti del beneficiario
I poteri dell’amministratore di sostegno, vengono plasmati dal decreto di nomina (emesso dal Giudice Tutelare) nel quale vengono definiti gli atti specifici che l’amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario e gli atti che possono essere compiuti in assistenza. Il giudice con la sua decisione deve proteggere la persona, i suoi bisogni e rispettare le sue richieste nei limiti della tutela della persona stessa. A seguito dell’istituzione della misura di protezione, il beneficiario conserva in ogni caso una sfera di capacità, con riguardo a due categorie di atti: – gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana (art. 409 c.c.) – gli atti per i quali la sua capacità non ha subito limitazioni.
Cosa contiene il decreto di nomina
Il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno deve contenere:
1. Le generalità della persona beneficiaria e dell’Amministratore di sostegno,
2. La durata dell’incarico che può essere anche a tempo indeterminato,
3. L’oggetto dell’incarico e degli atti che l’Amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario,
4. Gli atti che il beneficiario può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore di sostegno,
5. I limiti, anche periodici, delle spese che l’Amministratore di sostegno può sostenere con l’utilizzo delle somme di cui il beneficiario ha o può avere la disponibilità,
6. La periodicità con cui l’Amministratore di sostegno deve riferire al giudice circa l’attività svolta e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.
Revoca
La nomina dell'amministratore di sostegno può essere revocata in ogni momento in cui vengano meno le condizioni che ne hanno generato la necessità. La decadenza della funzione non può però essere automatica, salvo che non si tratti di nomina a tempo determinato, e deve essere disposta dal giudice tutelare con apposito decreto a seguito di specifica istanza dell'interessato, del suo amministratore o degli altri soggetti interessati.
Amministrazione di sostegno e testamento biologico
Il Tribunale di Modena, il 13 maggio 2008, ha emesso un decreto di nomina di amministratore di sostegno nel caso in cui, in futuro, il beneficiario versi in stato di incapacità. L'amministratore di sostegno dovrà disporre le cure secondo le direttive espresse dal beneficiario.

venerdì 11 luglio 2014

Il consenso informato e le misure di contenzione


Il diritto alla libertà del proprio corpo è senza alcun dubbio il più elementare dei diritti di libertà solennemente garantiti dalla Costituzione italiana che, come noto, all'art. 13 sancisce l'inviolabilità della libertà personale.
Eppure basta una semplice malattia, una perturbazione della mente o, più semplicemente, la vecchiaia, perché questo fondamentale diritto venga messo in discussione.
Le motivazioni che inducono a contenere gli ospiti nelle residenze per anziani si ravvisano nella necessità di prevenire i danni da caduta, di controllare i comportamenti disturbanti, quali l'aggressività e il vagabondaggio, di consentire la somministrazione di un trattamento medico senza l'interferenza del paziente.
In realtà si tratta di un intervento raramente appropriato nell'anziano a causa delle conseguenze su molte funzioni fisiche e psichiche, non più stimolate adeguatamente. Si riduce la massa e il tono muscolare, peggiora l'osteoporosi, si perdono progressivamente le funzioni di vita quotidiana, come alimentarsi, vestirsi, lavarsi.
A questo devono necessariamente aggiungersi le lesioni provocate da presidi inadeguati o nel tentativo di liberarsene.
Pesanti sono le conseguenze sul piano psicologico, anche se si tratta di pazienti confusi o dementi: dall'agitazione all'umiliazione, alla paura, all'apatia, alla deprivazione neuro-sensoriale.
Le cadute, motivo per cui viene usata la contenzione, spesso non diminuiscono e gli esiti sono più rovinosi. La mortalità nei pazienti sottoposti a contenzione pare sia maggiore, anche se è difficile quantificarla .
 La decisione di applicare la misura di contenzione dovrà porsi come l'extrema ratio, assunta al termine di un processo che non potrà prescindere da una valutazione multidimensionale del soggetto, strumento che permetterà di capire a priori chi potrebbe essere a rischio di cadute o di disturbi comportamentali.
Laddove la contenzione dovesse essere l'ultima risorsa possibile si dovrà porre in essere quanto possibile perché la stessa conservi la valenza sanitario-assistenziale.
In primo luogo preme precisare l'esatta definizione della misura di contenzione intesa come: “quell'insieme di mezzi fisici-chimici-ambientali che, in qualche maniera, limitano la capacità di movimenti volontari dell'individuo”.
Più in particolare si tratta di un atto sanitario-assistenziale che utilizza mezzi fisici-chimici-ambientali, applicati direttamente o allo spazio circostante all'individuo per limitarne i movimenti: per quanto possa sembrare superfluo è importante evidenziare che la contenzione, in quanto atto medico, necessita sempre di prescrizione medica.
E' bene qui ricordare che una prescrizione, per essere valida, dovrà essere preceduta dal consenso informato.
Solo in questo modo la contenzione assumerà dignità propria.
E' chiaro, quindi, che la contenzione rimane una pratica illegale, laddove applicata senza il consenso del paziente.
Con riferimento a soggetti cognitivamente integri il medico avrà quindi il dovere di informarli al fine dell'acquisizione del consenso, tenendo conto di alcune peculiarità non potendo prescindere dal livello culturale e dalle capacità di comprensione del singolo individuo ed avendo quindi cura di usare un linguaggio semplice e accessibile ( art. 30 Codice Deontologico medico).
Nel caso, invece, di soggetto dichiarato legalmente interdetto l'obbligo informativo andrà espletato nei confronti del tutore (art. 33 Codice Deontologico medico).
Spesso, però, nelle case protette, nelle residenze sanitarie assistenziali e nei centri diurni sono ospitati soggetti interessati da disturbi psicologici -  comportamentali per i quali il trattamento d'urgenza degli stessi disturbi diventa quotidianità.
E' evidente come per tali soggetti risulti arduo esprimere un consenso valido in quanto è difficile pensare ad un loro coinvolgimento nell'iter decisionale.
È anche vero, però, che la diagnosi di demenza non indica di per sé una perdita della competenza intesa come la capacità di comprendere una situazione e di prendere decisioni al riguardo.
Nelle prime fasi della malattia è infatti possibile che il paziente sia ancora in grado di valutare correttamente una situazione e prendere quindi decisioni al riguardo. Questo perché la competenza non è un concetto unitario: esistono molteplici abilità funzionali differenti, per cui il soggetto può non essere più in grado di guidare la macchina ma ancora in grado di esprimere il proprio consenso (ad esempio, per partecipare ad una sperimentazione medica).
In questo caso, informazione e acquisizione del consenso dovranno confrontarsi con diverse capacità decisionali.
Quando però la perdita di competenza è tale da rendere difficoltoso il coinvolgimento dell'anziano nell'iter decisionale sarà il medico a dover decidere assumendosi ogni responsabilità in merito.
 La contenzione non è mai un processo statico, ma sicuramente di tipo dinamico: la rivalutazione del processo, sia nel perseguimento dei suoi obiettivi (mettere in sicurezza il soggetto e gli altri), sia nei suoi standard procedurali, va affrontato e rivisto periodicamente .
I principi sopraesposti trovano integrale applicazione anche nel Codice deontologico dell'infermiere che, all'art. 4.10, prevede espressamente l'obbligo per l'infermiere di adoperarsi “ affinché il ricorso alla contenzione fisica e farmacologia sia evento straordinario e motivato, e non metodica abituale di accudimento. Considera la contenzione una scelta condivisibile quando vi si configuri l'interesse della persona e inaccettabile quando sia una implicita risposta alle necessità istituzionali ”.
Tale documento, prevedendo esplicitamente la possibilità da parte dell'infermiere di contenere, viene a far rientrare di fatto tra le competenze dello stesso l'applicazione della predetta misura ovviamente nei limiti e nei modi posti dal Codice Deontologico stesso (art 4.10 ) e nel rispetto della libertà e dignità della persona (art. 2 ).
In particolare, per quanto riguarda la responsabilità infermieristica , essendo la contenzione assimilabile a una pratica terapeutica, l'infermiere potrà contenere soltanto se esiste una prescrizione medica, rispondente alle seguenti regole :
•  registrazione in cartella clinica con l'indicazione della:
•  motivazione circostanziata;
•  durata del trattamento o della sua rivalutazione previa verifica;
•  tipo di contenzione e modalità da utilizzare (solo polsi, polsi e caviglie, ecc.).
Naturalmente possono verificarsi situazioni talmente urgenti da non consentire la possibilità di seguire la procedura sopra descritta o addirittura che il medico non sia presente fisicamente in reparto.
In questo caso, perché l'infermiere possa contenere il paziente dovrà sussistere, il cosiddetto stato di necessità.
 Ricordarsi:
- i disturbi d'ansia, ad esempio, possono essere efficacemente combattuti attraverso l‘utilizzo di strategie alternative di tipo relazionale come una maggiore disponibilità all‘ascolto da parte dell‘operatore;

- in tema di prevenzione delle cadute si porranno come utili e necessarie delle modificazioni ambientali volte alla riduzione del rischio quale la diminuzione dell‘altezza dei letti, una maggiore illuminazione e pavimentazioni adeguate.

Il consenso informato

Il consenso informato è la manifestazione di volontà che il paziente ( previamente informato in maniera esauriente dal medico su natura e possibili sviluppi del percorso terapeutico) da per l’effettuazione di interventi di natura invasiva sul proprio corpo.
Il consenso informato è un momento importante nel rapporto che il sanitario intrattiene con il paziente.
Esso è funzionale, da un lato, a fondare la fiducia del paziente nel medico e, dall’altro, a rendere partecipe, responsabilizzandolo, il paziente sulle ragioni e la fondatezza del percorso terapeutico individuato, secondo scienza e coscienza, dal medico stesso.
Il consenso a qualunque atto sanitario è regolato in via generale dall’art. 13 e 32  della Costituzione.
Il primo prevede che “la libertà personale e' inviolabile”, mentre il secondo prevede
che: “ nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
In sostanza nessun trattamento sanitario può essere imposto ad un cittadino che non vi acconsenta, ad eccezione degli specifici casi previsti espressamente dalla legge (es. i trattamenti sanitari obbligatori).
Il consenso, così come il dissenso, che si esplica tramite il rifiuto di sottoscrivere la modulistica che accompagna l’informazione, deve essere chiaramente cosciente e cioè, nei limiti delle conoscenze sanitarie del paziente, acquisito.
Non si richiede che il paziente acquisisca le conoscenze tecnico chirurgiche dell’operazione, ma si richiede che venga informato con specificità della sua situazione personale circa i benefici che si potrebbe aspettare dal trattamento sanitario, le diverse tecniche terapeutiche (farmacologiche o operatorie) e quindi le modalità di intervento che possano incidere sulle condizioni fisiche e psichiche o sul bene vita considerato come vita di relazione e incidenza sul modo di vivere (es. deturpazioni estetiche a fronte di un guadagno funzionale che devono essere valutati dal paziente nei costi/benefici). Inoltre tale informazione deve essere corretta, cioè corrispondente alla verità evitando di sminuire od esagerare i diversi aspetti legati al trattamento.
Dal punto di vista giuridico, l'informazione per quanto concerne l’atto medico e la raccolta del relativo consenso spetta al medico che deve effettuare lo specifico trattamento, mentre all’infermiere spetta quella concernente il suo specifico ambito professionale.
 Il modulo informativo viene sottoscritto dal paziente o dal suo legale rappresentante e dal medico che raccoglie il consenso reso.
Il Decreto Ministeriale 739/94, che delinea il Profilo professionale dell’infermiere, prevede l’erogazione di prestazioni di natura tecnica, relazionale ed educativa; dunque l’informazione al paziente per quanto concerne il suo specifico professionale e' una prestazione infermieristica.
La natura educativa e relazionale dell’assistenza affermata appunto dal profilo, indica chiaramente che l'infermiere ha una competenza informativa autonoma, ma svolge anche la funzione di anello di congiunzione tra paziente e medico.
Il Codice Deontologico dell’Infermiere del 2009, all’articolo 20 afferma che: “l'infermiere ascolta, informa, coinvolge la persona e valuta con la stessa i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e consentire all'assistito di esprimere le proprie scelta” e all’articolo 24 afferma che: “l’infermiere aiuta e sostiene l’assistito nelle scelte, fornendo informazioni di natura assistenziale in relazione ai progetti diagnostici e adeguando la comunicazione alla sua capacità di
comprendere”.
L'infermiere, oltre a trasmettere dati e informazioni, spesso si trova a dover fornire chiarimenti sui vari aspetti del vissuto di malattia su cui il paziente pone domande. L’operatore, consapevole della delicatezza di questa informazione e del suo impatto emotivo sul malato, deve adoperarsi in modo da renderla onesta, veritiera e completa. Il modulo di consenso, pertanto, è una registrazione del trattamento rispetto al quale il paziente si è detto d’accordo, ed è responsabilità  dell’infermiere tanto quanto del medico assicurarsi che il consenso sia effettivamente informato.
L’infermiere può anche decidere di non cooperare ad un procedimento, se è convinto che la decisione con cui si acconsente ad esso non e' veramente informata.
L'infermiere, potrà anche essere chiamato a presenziare quale testimone alla procedura informativa ed alla raccolta da parte del medico del consenso informato. Anche in questa ipotesi la responsabilità della procedura rimane al medico, il quale risponderà di eventuali omissioni a riguardo.
E importante, però, che l’infermiere non avvalori con la sua presenza procedure informative scorrette.
La comunicazione in merito a trattamenti diagnostici e terapeutici non è di interesse infermieristico, mentre lo è la comunicazione in merito a particolari situazioni di disagio del malato inerenti la sua situazione di malattia.
 L'infermiere non può sostituire il medico quando l’informazione non e' stata data, ma, per la sua professionalità, ha sicuramente un ruolo nel favorire il passaggio delle informazioni e nel dare supporto emotivo al paziente.
L'operatore instaura con la persona una relazione d’aiuto in cui rassicura l’utente e lo aiuta a renderlo partecipe alla decisione, verificando che quanto detto dal medico sia stato effettivamente compreso.
Spesso, infatti, è proprio all’infermiere che il paziente confida le sue perplessità, quindi può farsi da tramite per ulteriori e più approfonditi colloqui fra medico e paziente.
Validità del consenso
In sintesi il consenso del paziente, per risultare giuridicamente valido, deve essere:
- esplicito, cioè manifestato in maniera non equivocabile al sanitario;
- personale, cioè deve essere prestato esclusivamente dal soggetto interessato al trattamento sanitario, salvo il caso di situazioni di emergenza, minori d'età, infermi di mente;
- libero nel senso che non deve essere condizionato da altri soggetti (parenti, medici etc.);
- consapevole nel senso che deve essere prestato solo dopo che il paziente ha ricevuto tutte le informazioni necessarie;
- attuale deve essere prestato prima dell'inizio del trattamento e può essere revocato dal paziente;
- specifico deve riguardare il determinato trattamento sanitario prospettato dal medico.

Di prassi si utilizza la forma scritta inevitabile ai fini della prova.

Il rifiuto delle cure

Se il paziente è capace d’intendere e di volere, può esprimere il consenso o meno allatto sanitario, dopo essere stato adeguatamente informato.
 In presenza di un dissenso valido e consapevole nessuno può  intervenire in omaggio alla prioritaria tutela della libertà e dignità della persona.
Il diritto all'autodeterminazione trova un limite nel caso degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori che la legge prevede nell’interesse della collettività, ovvero nel caso in cui il paziente non sia in condizione di prestare il proprio consenso e l'intervento medico risulti urgente ed indifferibile al fine di salvarlo dalla morte o da un grave pregiudizio alla salute:
a) situazione di emergenza
In tali circostanze, l'agire del medico senza il consenso dell'ammalato che non è in grado di esprimere il consenso è giustificato dallo stato di necessità di cui all'art. 54 codice penale secondo cui non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità  di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo.
 b) malattia mentale
Nel caso di malattia psichiatrica, la quale implichi un trattamento sanitario obbligatorio, ai sensi della Legge n. 180 del 1978, il sanitario deve svolgere iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi è obbligato e quindi acquisire il consenso del legale rappresentante (ove tale figura sia presente); altrimenti, in presenza dell’esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio per legge, il medico può prescindere dal consenso del paziente.
Il trattamento sanitario obbligatorio, come specifica l’articolo 1 della legge 180/78 si configura come un'eccezione espressamente prevista e disciplinata dal legislatore (nel pieno rispetto della riserva di legge sancita nel comma 2 dell'art. 32 della Costituzione).
Deve dunque considerarsi come un’eventualità del tutto eccezionale, una deroga espressamente autorizzata - e disciplinata nei minimi dettagli - dalla legge, (art. 2 della 180 e art. 34 della 833) al principio del necessario consenso.
La regola rimane quella della volontarietà del trattamento, mentre l’intervento obbligatorio o coattivo deve considerarsi l’eccezione.
Quindi, prima di intervenire in via coercitiva deve farsi qualsiasi tentativo possibile che possa  ritenersi concretamente utile per ottenere il consenso.
In ambito infermieristico, il Codice deontologico espressamente prevede, all’art. 30, che: “L'infermiere si adopera affinché  il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali”, mentre l’art. 32 afferma: L'infermiere si impegna a promuovere la tutela degli assistiti che si trovano in condizioni che ne limitano lo sviluppo o
l'espressione, quando la famiglia e il contesto non siano adeguati ai loro bisogni”.
c) trattamenti sanitari su minori
Nel trattamento sanitario sui minori il consenso, di norma, viene legittimamente prestato dal legale rappresentante e cioè nella maggioranza dei casi dai genitori.
Nelle ipotesi di opposizione al trattamento da parte dei genitori o del minore stesso (ad es. testimoni di Geova) se l'intervento medico è urgente ed indifferibile per evitare un grave danno al minore, il medico è comunque legittimato ad agire in forza dello stato di necessità ex art. 54 codice penale: “Non e' punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”; viceversa, nel caso di intervento medico non urgente e differibile, il medico può richiedere l'intervento dell'autorità giudiziaria che può autorizzare l'esecuzione del trattamento.
Si deve comunque tener presente che per i principi dell’autodeterminazione e dell’autonomia del paziente nell'ipotesi di contrasto tra la volontà dei genitori e quella del minore di adeguata maturità mentale, prevarrà  la volontà di quest'ultimo previo parere del giudice tutelare.

In proposito, il Codice deontologico dell’infermiere prevede, all’art. 31, che quest’ultimo: “ si adopera affinché  sia presa in considerazione l'opinione del minore rispetto alle scelte assistenziali, diagnostico-terapeutiche e sperimentali, tenuto conto dell'età e del suo grado di maturità''.

Referto e denuncia di reato


L'art. 365 codice penale prevede espressamente che:”chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'Autorità è punito con la multa fino a euro 516 € . Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale”.
Il referto, pertanto, è l'atto col quale l'esercente una professione sanitaria riferisce all'Autorità Giudiziaria di avere prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio.
In questo modo è possibile perseguire l'autore di un reato e assumere tutti quei provvedimenti atti a reprimere la criminalità.
L'art. 365 codice penale fa riferimento alla professione sanitaria senza alcuna distinzione. Sono ritenuti ugualmente obbligati, pertanto, anche coloro che esercitano professioni sanitarie diverse da quella medica ed in particolare l'infermiere, il farmacista, il veterinario etc.
Queste figure giuridiche, pertanto, hanno l'obbligo di segnalare immediatamente e comunque entro le 48 ore al Pubblico Ministero di turno o agli Ufficiali di Polizia Giudiziaria qualunque reato perseguibile d'ufficio di cui siano venuti a conoscenza nell'esercizio della loro attività.
L'obbligo scaturisce dall'esercizio della professione sanitaria e precisamente dall'aver prestato assistenza o opera nel caso concreto. Il referto, quindi, rientra tra le attività doverose cui il sanitario è sottoposto, tanto che, come disciplinato dall'art. 365 codice penale, l'inadempimento di tale obbligo è penalmente sanzionabile.
 Oggetto del referto sono quei casi che possano presentare i caratteri di delitto perseguibile d'ufficio, e ciò anche quando l'autore sia persona non imputabile. Sono esclusi pertanto i casi nei quali si procede solo a querela della persona offesa.
Tra i delitti perseguibili d’ufficio concernenti l’ambito sanitario si evidenziano:
- delitti contro la vita (omicidio, istigazione o aiuto al suicidio, omicidio del consenziente, infanticidio);
- delitti contro l'incolumità individuale (lesioni personali dolose e colpose);
- delitti contro l'incolumità pubblica (attività pericolose che comportino rischi di epidemie, intossicazioni, danni provocati da alimenti o medicinali);
- delitti sessuali;
- delitti di interruzione della gravidanza;
- delitti contro la libertà personale (sequestro di persona, violenza privata);
- delitti contro la famiglia (abuso di mezzi di correzione, maltrattamenti).
Nel caso in cui il sanitario svolga la propria attività come pubblico dipendente, quindi con la qualifica giuridica di pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio, gli articoli 331 e 332 del codice penale prevedono anche per tali soggetti l’obbligo di informare l’Autorità Giudiziaria dell’esistenza di reati mediante la trasmissione, senza ritardo, della cosiddetta denuncia di reato, limitatamente, come per il referto, ai soli reati perseguibili d’ufficio.
L'obbligo di denuncia interessa, come sancito dall'art. 331 codice di procedura penale, tutti i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio che, durante l'espletamento del proprio servizio, abbiano notizia di un reato perseguibile d'ufficio; tale obbligo risponde all'esigenza di recare informazioni circa gli elementi del fatto, con indicazioni riguardanti la fonte della notizia, la data di acquisizione della stessa, i dati riguardanti la persona autrice del fatto, la persona offesa, ad esclusione dei dati di natura biologica, fornendo un giudizio diagnostico delle lesioni, nonché un'analisi approfondita sulla natura, sulla causa e sulle conseguenze delle stesse.
Occorre evidenziare che mentre per poter stilare una denuncia è necessario che il pubblico ufficiale abbia avuto notizia, durante il proprio servizio, di un reato effettivamente realizzatosi, ai fini del referto, invece, e' sufficiente che l'esercente una professione sanitaria abbia prestato la propria assistenza od opera in casi che, sulla base delle proprie conoscenze e della propria personale discrezionalità, possano presentare le caratteristiche di delitti perseguibili d'ufficio.
Altra distinzione nasce dall'assunto che, a differenza della denuncia, l'autore del referto è esercente professione sanitaria, il che impone l'obbligo di rispetto dei doveri deontologici di tutela e salvaguardia dell'assistito, prima ancora di quello dell'espletamento dei doveri giuridici, secondo gli stessi canoni posti alla base del segreto professionale.
E' bene precisare, però, che, perchè possa sussistere tale esimente, è necessario che “tra referto e sottoposizione della persona a procedimento penale sussista un rapporto di causa ad effetto, nel senso che solo a seguito del referto del sanitario il procedimento verrebbe aperto”.
Ciò significa che tale esonero non è applicabile nel caso in cui la prestazione professionale fosse diretta nei riguardi di:”persona latitante o ricercata per altre vicende giudiziarie o che debba scontare una condanna a pena definitiva”, in tal caso il referto non sarebbe infatti causa dell'esposizione della persona offesa a procedimento penale (già avviato o addirittura definito), ma solo, semmai, occasione per il suo rintraccio.

Per quanto riguarda l'omissione di referto, come disciplinata dall'art. 365 codice penale, è considerata reato in quanto ostacolo allo svolgimento dell'attività giudiziaria. E’ punibile non solo chi ometta di redigere il referto, ma anche chi non lo faccia pervenire in tempo all'Autorità Giudiziaria (art. 334 codice procedura penale) e chi lo rediga in maniera incompleta o scorretta.

Rivelazione di segreto professionale - Rivelazione di segreto d'ufficio

L'infermiere è tenuto, nell'ambito della sua attività, a mantenere il riserbo sulle notizie apprese in virtù del rapporto con il paziente; tale dovere è previsto sia nel Codice Deontologico, il quale, all'art. 26 specifica espressamente che “l'infermiere assicura e tutela la riservatezza nel trattamento dei dati relativi all'assistito”, sia nel codice penale agli art. 622 (rivelazione del segreto professionale) e 326 (rivelazione del segreto d'ufficio).
La differenza tra i due reati è data dalla qualifica giuridica del sanitario al momento in cui commette il fatto illecito; la rivelazione del segreto professionale, infatti, riguarda il sanitario che svolge attività libero professionale mentre la rivelazione del segreto d'ufficio riguarda il sanitario pubblico dipendente.
L'art. 622 codice penale recita:”chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può derivare nocumento, con la reclusione fino a 1 anno o con la multa”.
Il reato consiste nella rivelazione, senza giusta causa, di qualsiasi tipo di notizia personale anche non di tipo sanitario, che il paziente non è intenzionato a divulgare, ovvero nel suo impiego a proprio od altrui profitto. Perchè il reato si configuri è necessario che la divulgazione avvenga intenzionalmente, occorre cioè l'intenzione specifica di rivelare il segreto.
Le informazioni coperte dal segreto possono riguardare non solo i dati clinici del paziente, ma anche aspetti della vita intima appresi nell'ambiente domestico durante, ad esempio, prestazioni domiciliari.
La rivelazione della notizia può avvenire attraverso comunicazioni scritte, verbali, cenni, ed è sufficiente, perchè si configuri il reato, che la notizia venga divulgata anche ad una sola persona.
Non costituisce rivelazione del segreto professionale, ma semplice “trasmissione”, la divulgazione di notizie sullo stato di salute della persona ad altri operatori sanitari ai fini della prestazione assistenziale; tali soggetti sono chiaramente tenuti, a loro volta, al massimo riserbo su quanto riferito.
 La rivelazione del segreto professionale è legittima solo se sussiste una giusta causa. In alcune ipotesi, infatti, la divulgazione è espressione di un dovere stabilito dall'ordinamento giuridico (denunce sanitarie di malattie infettive, referto all'Autorità Giudiziaria, perizia e consulenza tecnica).
In tali casi, l'eventuale rifiuto del sanitario ad ottemperare l'obbligo giuridico di rivelazione, potrebbe esporlo, a sua volta, a sanzioni penali.
In tali ipotesi, comunque, il sanitario è tenuto a rispettare l'obbligo del riserbo su tutte
quelle notizie irrilevanti ai fini dell'espletamento dell'incarico e per le quali non sussiste l'obbligo di riferire all'Autorità Giudiziaria.
In altre circostanze, invece, sussiste la possibilità, ma non l'obbligo, per il sanitario di rivelare notizie coperte da segreto. Ad esempio l'art. 200 del codice di procedura penale prevede la facoltà, e non l'obbligo, per gli esercenti una professione sanitaria, di testimoniare su fatti appresi nello svolgimento della propria attività.
La rivelazione del segreto professionale e' un reato punibile a querela di parte e cioè perseguito su richiesta della persona offesa, a differenza, invece, del reato di
rivelazione ed utilizzo di segreto d'ufficio, previsto e disciplinato dall'art. 326 codice penale: “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, e' punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Tale reato e' perseguibile d'ufficio e prevede pene più severe in virtù della qualifica di pubblico ufficiale dell'autore del fatto.

La giurisprudenza ha ravvisato la configurazione di tale reato a carico di alcuni infermieri addetti alla camera mortuaria di un ospedale i quali, violando i doveri di riservatezza ed imparzialità alla cui osservanza erano tenuti, nella loro qualità di pubblici impiegati, avevano concordato con determinate imprese di onoranze funebri di dare a queste ultime, dietro corrispettivo in danaro, immediata notizia dei decessi (Cass. 30.7.1991 n 2266).

I principali reati di interesse sanitario

Tra i principali reati prossimi alla professione sanitaria di infermiere si possono annoverare a titolo esemplificativo: omicidio colposo ex art. 589 codice penale: “Chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
In campo sanitario tale reato si realizza quando medici od infermieri abbiano determinato, con il loro operato, la morte del paziente.
Tale reato è stato contestato ad infermieri, ad esempio, in casi di errata somministrazione di farmaci o di errate valutazioni in ambito di triage di pronto soccorso o di emergenza collegata al servizio 118.
Lesioni personali colpose, art. 590 codice penale: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309”.
In campo sanitario tale reato è ravvisabile in ipotesi di trattamenti medico-chirurgici in assenza di un valido consenso del paziente. E un reato perseguibile a querela di parte, cioè su espressa denuncia della parte lesa.
La lesione si configura quando l’errato trattamento comporta un aggravamento od un prolungamento del normale decorso della malattia. La lesione colposa è “grave” se la malattia è di durata superiore ai 40 giorni, oppure vi è stato un pericolo di vita per la persona offesa, oppure si è prodotto un indebolimento permanente ad un senso o ad un organo.
La lesione colposa è “gravissima” quando la malattia è certamente o probabilmente insanabile, o vi è stata la perdita di un senso o dell'uso di un organo o di un arto, oppure una mutilazione che renda l'arto inservibile. E gravissima anche quando comporta la perdita della capacità di procreare o determina una permanente grave difficoltà della favella o la deformazione o lo sfregio permanente del viso.
Rifiuto datti di ufficio - omissione, art. 328 codice penale: “Il pubblico ufficiale o l'incaricato d un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, e' punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.
Il reato si configura in presenza di condotte omissive da parte del sanitario, anche se da tali condotte non derivano conseguenze dannose per il paziente. Soggetto attivo del reato è colui che riveste la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In campo infermieristico è stata ritenuta responsabile di tale reato un'infermiera che indebitamente rifiutava di effettuare le operazioni di pulizia di un paziente, sottoposto a un intervento di resezione colica, il cui letto e le parti intime erano imbrattate con le feci fuoriuscite dalla sacca di contenimento delle stesse, atto che per ragioni di igiene e di sanità doveva essere compiuto senza ritardo, accampando la scusa di provare vergogna per la differenza di sesso e dichiarando di essere impegnata in altre attività di assistenza ai degenti (Cass. Penale n. 39486 del 2006).
Violenza privata, previsto all’art. 610 codice penale: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.
In ambito sanitario il reato si configura essenzialmente quando il trattamento sanitario
viene praticato in assenza di un valido consenso od in occasione di pratiche contenitive, o comunque coercitive, attuate nei confronti di pazienti affetti da disturbi psichiatrici, tossicodipendenti, disabili od anziani incapaci di intendere e di volere.
Sequestro di persona, previsto e punito all’art. 605 del codice penale: “Chiunque priva taluno della libertà personale è punito con la reclusione da sei mesi a otto anni. La pena è della reclusione da uno a dieci anni, se il fatto è commesso:
 1) in danno di un ascendente, di un discendente o del coniuge;
2) da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni.
 Tale reato può essere commesso da operatori sanitari che esplicano la loro attività in ambito psichiatrico, geriatrico o delle tossicodipendenze.
 La fattispecie, il più delle volte, si realizza in ipotesi di contenzione ingiustificata.
Esercizio abusivo di una professione, art. 348 codice penale: “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da euro 103 a euro 516”.
 L'articolo è posto a tutela dell'interesse pubblico, affinché determinate professioni siano esercitate, solo ed esclusivamente, da soggetti abilitati ed iscritti ad un albo professionale, per garantire ai cittadini i requisiti minimi di idoneità e capacità di colui che esercita.
 Così, lo svolgimento di alcune professioni è subordinato a cautele che l'ordinamento pone a garanzia affinché le prestazioni siano offerte con uno determinato standard di qualificazione professionale e morale.
La professione infermieristica rientra tra queste cosiddette professioni “protette”, in quanto il relativo esercizio è possibile solo dopo il conseguimento del titolo di laurea, l’ottenimento dell’abilitazione professionale conseguente al superamento dell’esame di Stato e l‘iscrizione al collegio professionale di appartenenza.
Il reato si consuma nel momento in cui sia posta in essere indebitamente una prestazione professionale. E irrilevante che la condotta illecita sia realizzata per fini meramente lucrativi piuttosto che benefici; del pari non esclude il reato il consenso del destinatario della prestazione abusiva, in quanto l’interesse leso, essendo di carattere pubblico, resta comunque indisponibile.
 E opportuno sottolineare che l’eventuale perizia, capacità ed abilità nonché l’esito eventualmente positivo del trattamento effettuato da chi è privo della necessaria abilitazione non assurgono a valore discriminante né escludono la configurabilità  della fattispecie di reato, essendo espressamente punita dalla norma solo l’assenza del titolo e non le capacità personali dell’autore della prestazione.
A seguito dell’abolizione del mansionario, che stabiliva rigidamente le attività di competenza infermieristica, può essere attualmente più complicato distinguere le prestazioni di pertinenza medica e quelle demandate agli infermieri.
Il criterio generale, comunque, individua la fase di diagnosi e cura di competenza del medico, mentre l’attività assistenziale è riservata all’infermiere.
Abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 codice penale): “Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere la cura, e punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.La pena e della reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed e da tre a otto anni se ne deriva la morte”.
Nella professione infermieristica il reato si concretizza attraverso mancata esecuzione del rapporto di cura, qualora gli operatori abbandonano o non esercitano la custodia di minori o incapaci a loro affidati, o omettono di fornire le prestazioni assistenziali o le cure di cui necessitano i pazienti, con conseguenti rischi per la salute.
Stato di incapacità procurato mediante violenza (art. 613 codice penale): “Chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato di incapacità di intendere o di volere, è punito con la reclusione fino a un anno”.

La fattispecie può ricorrere nell’ipotesi in cui il paziente venga sottoposto ad una sedazione farmacologia in assenza di un valido consenso o da ragioni giustificative dettate dalla situazione clinica o da necessità assistenziali.