Introduzione: biomedicina e diritti dell’uomo.
«Direttive anticipate»; «testamento biologico»; «scelte di
fine vita»: sono queste le etichette con le quali si identifica un dibattito
che, negli ultimi anni, è uscito dalle pagine delle riviste scientifiche per
diventare oggetto di discussione sui quotidiani, nelle televisioni e nelle aule
parlamentari.
Un dibattito il cui senso può essere compreso solo
ricordando quanto accaduto negli ultimi decenni in due settori fra loro
profondamente legati: quello delle scienze biomediche e quello dei diritti
della persona.
Le scelte di
fine vita: la giurisprudenza
Quando i genitori di Karen Quinlan
– una ragazza colpita da un collasso e sottoposta a rianimazione, ma rimasta in
stato vegetativo – agiscono per ottenere la cessazione delle terapie alla quali
è sottoposta la figlia, i giudici del New Jersey riconoscono che il diritto a rifiutare
le cure non si perde se si è colpiti da incapacità; si tratta di individuare la
via migliore per dar valore alla volontà della persona, pur quando questa non
sia più in grado di manifestarla. Nel
caso di specie essi affermeranno perciò che: «The only practical way to
prevent destruction of the right is to permit the guardian and family of Karen
to render their best judgment, subject to the qualifications hereinafter
stated, as to whether she would exercise it in these circumstances».
La linea verrà confermata in
un’altra vicenda, relativa a un’anziana donna in condizioni gravissime e del
tutto incapace che sopravviveva grazie all’alimentazione somministratale con
sondino nasogastrico. Di fronte alla richiesta di un congiunto della paziente,
volta a far cessare le terapie in atto, i giudici – pur auspicando un
intervento del legislatore in grado di dettare regole certe in una materia così
delicata – individueranno nelle precedenti manifestazioni di volontà (living
will) e nella nomina di un rappresentante – che si faccia portavoce
della volontà e che persegua il best
interest del paziente
– gli strumenti idonei ad assicurare l’esercizio del diritto da parte
dell’incapace.
Un altro caso, costantemente
citato nella letteratura d’oltre oceano, riguarda una donna caduta in SVP a
causa di un incidente stradale. Stavolta la richiesta di sospendere le misure –
nutrizione e idratazione artificiale – che tenevano in vita la giovane proviene
dai suoi genitori. Il caso consentirà alla Corte Suprema federale di chiarire,
da un lato, che la nutrizione e l’idratazione artificiali sono trattamenti
sanitari e, in quanto tali, soggetti alle regole del consenso informato;
dall’altro lato, che le scelte devono essere adottate rispettando la volontà
del paziente (ora incapace), determinata in base a «clear and convincing,
inherently reliable evidence».
Un rapido sguardo alla realtà
europea.
Come abbiamo visto, la sequenza che ha caratterizzato la
nascita negli U.S.A. delle regole che ci interessano ha visto, in prima
battuta, la giurisprudenza affrontare i nuovi problemi giuridici ed etici –
conseguenza delle innovazioni nel campo medico scientifico – allestendo
risposte coerenti con il quadro costituzionale e con le stesse regole
tramandate dal common
law giurisprudenziale.
È intervenuta poi la legislazione, la quale non ha
smentito quanto affermato dalle corti, ma ha proseguito sul medesimo percorso,
con l’intenzione di offrire ai consociati strumenti formali e certezze in vista
del rispetto dei diritti già proclamati nelle aule giudiziarie.
La medesima sequenza – corti e legislatori che si muovono
in sintonia, i secondi formalizzando e riordinando le regole formulate dai
primi – emerge dall’analisi di quanto accaduto in molti altri Paesi ai noi
vicini.
In effetti, anche in Inghilterra, le regole che governano
le scelte di fine vita sono state dapprima formulate dai giudici e poi
formalizzate dal Parlamento.
Dal caso Bland – ove si è affermato che nella
decisione medica si deve perseguire il best
interest del paziente, il che può comportare anche
l’interruzione della cure, comprese le misure di nutrizione e idratazione
artificiale – si è giunti al Mental
Capacity Act del 2005.
La normativa – assai complessa – muove dal principio di
autonomia del paziente e mira all’obiettivo della realizzazione del suo best interest.
In estrema sintesi:
a) la decisione spetta all’interessato;
b) se questi è incapace di manifestare la sua volontà:
b1) si rispettano le sue direttive anticipate; sono
possibili «Advance decisions to refuse life-sustaining treatment» (solo
in tal caso sono previste particolari formalità; sono comunque rinunziabili
l’alimentazione e l’idratazione artificiale); è possibile che l’interessato
nomini un «donee of lasting power of attorney»,
al quale spetteranno le decisioni; ove necessario per la tutela degli interessi
del soggetto, si può procedere alla nomina di un «deputy» da
parte della Corte;
b2) altrimenti decide il medico, sulla base del best interest, da
determinarsi tenendo conto di tutte le informazioni disponibili sul soggetto,
interpellandoattorney, deputy (se esistenti) oppure un Independent Mental Capacity
Advocate e sotto il
controllo della Court
of Protection.
Olanda e Belgio presentano molti
tratti in comune. In entrambi i Paesi, dopo una serie di casi nei quali i
giudici avevano sostanzialmente riconosciuto, a determinate condizioni, la
liceità dell’eutanasia, è intervenuta la legislazione. In queste realtà è stata
esplicitamente disciplinata l’eutanasia, intesa come: «l’acte pratiqué par un tiers, qui
met intentionnellement fin à la vie d’une personne, à la demande de celle-ci». Così definita, l’eutanasia – che può essere oggetto
di dichiarazione anticipata scritta da parte di chi la richieda – è
depenalizzata se praticata dal medico in determinate circostanze e con determinate
garanzie
In Francia è la c.d. «Loi
Léonetti» a dettare
ora le regole: il consenso informato è necessario per «tout
traitment» (alimentazione e idratazione sono trattamenti medici, e
perciò rinunziabili). In vista di una futura incapacità, la volontà può essere
riportata nelle «directives anticipées»: scritte, ma con
poche formalità; vincolanti e valide 3 anni. Ove le direttive riguardino la
rinunzia a trattamenti vitali, la decisione finale toccherà al medico, il quale
dovrà «tenerne conto» e seguire una procedura collegiale consultando la personne de confiance, oppure la famiglia o, un proche.
In Spagna, una legge del 2002 stabilisce le necessità del consenso
informato, salvo che in caso di emergenza; la volontà del paziente può essere
contenuta nelle
«instrucciones previas»
da redigere in forma scritta e per le quali è previsto l’allestimento di un
registro nazionale; l’interessato può rinunciare a qualsiasi terapia («los cuidados y el tratamiento de
su salud»).
L’Austria ha preso posizione con
una legge del 2006 Patientenverfügungsgesetz:
le «disposizioni del paziente» – redatte davanti a notaio, avvocato o
«rappresentante dei pazienti» – sono vincolanti se presentano tutti i requisiti
di legge; altrimenti non sono vincolanti ma restano rilevanti al fine di
stabilire la volontà del soggetto; la rinunzia alle terapie è ammissibile anche
quando va contro il parere medico – prevale cioè l’ autonomia – e tale rinuncia
può riguardare anche alimentazione e idratazione artificiali.
In Germania, dopo una decisione
del Bundesgerichthof – nella quale si è affermato che
l’art. 1 della Grundgesetz sulla dignità umana impone il rispetto
della volontà del paziente, e che l’autodeterminazione rileva anche per chi sia
in stato di incapacità, specie ove abbia formulato una Patientenverfügung – il legislatore è intervenuto con una
legge che ha modificato il codice civile (BGB): la Patientenverfügungsgesetz,
in base alla quale le disposizioni – scritte – del paziente vanno rispettate;
in ogni caso si deve ricostruire la sua volontà presunta, processo al quale
partecipano medico, tutore, familiari, persone di fiducia, giudice tutelare;
ciò vale per tutte le terapie.
L’Italia: il caso «Englaro»
Nel nostro Paese, la scintilla che
ha acceso le discussioni intorno alla rinunzia alle terapie, in caso di
incapacità dell’interessato, è scoccata con il caso «Englaro» o, meglio, quando
la vicenda giudiziaria ha cominciato a prendere una piega favorevole al
ricorrente: fino a quel momento, infatti, l’attenzione dei media nei confronti della dramma della
giovane Eluana e della sua famiglia era stata decisamente scarsa.
Eluana Englaro era una giovane donna, rimasta vittima di
un incidente stradale; all’inizio della storia giudiziaria che l’ha riguardata,
si trovava in SVP già da 7 anni.
Il padre della ragazza, nominato suo tutore, aveva chiesto
la rimozione delle misure di mantenimento in vita, sostenendo che tale sarebbe
stata la volontà della figlia, ove fosse stata in grado di esprimerla.
Dopo essere state respinte nelle
prime fasi processuali, le tesi del ricorrente verranno infine accolte dalla
Cassazione e dalla Corte
d’Appello di Milano.
Secondo la Suprema Corte , il principio del consenso
informato «esprime una scelta di valore nel modo di concepire
il rapporto tra medico e paziente»; il paziente ha perciò il diritto di «rifiutare
la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in
tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».
La salute è – prosegue la Corte – un bene disponibile
da parte del soggetto capace, oppure da chi abbia «specificamente indicato,
attraverso dichiarazioni
di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato
ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a
trovarsi in uno stato di incoscienza».
Gli istituti della tutela e dell’amministrazione di
sostegno attribuiscono al rappresentante la cura dell’incapace: e ciò vale
soprattutto con riguardo agli interessi non patrimoniali del soggetto.